La fine di un cartello

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BO – 12 Dicembre 2014

oil-gas-and-energy-ELFL’unione fa la forza. Questo è il concetto alla base di un cartello, ma è proprio la mancanza di una visione unitaria nell’OPEC che ha portato a confermare, per la sesta volta da dicembre 2011, il tetto dei 30 milioni di barili giorno (mln.bbl/g), spingendo ulteriormente al ribasso le quotazioni dei greggi, già ai minimi da 5 anni.

Dopo grande attesa visto il crollo dei prezzi a cui si assiste da giugno, il 27 novembre i 13 membri OPEC hanno concluso la consueta riunione di fine anno scegliendo di non scegliere, sia per quanto riguarda l’output collettivo che individuale. Si confidava infatti in una presa di posizione per porre un limite ai livelli di produzione dell’organizzazione attraverso la revisione dei target che ogni Paese, Iraq escluso, formalmente ha. Facendo invece prevalere la linea attendista dei Paesi del Golfo (Arabia Saudita, UAE e Kuwait) su quella dei falchi Venezuela e Iran, non è cambiato niente. Un vero e proprio fallimento per Caracas, che strozzata da un rischio default si era esposta pubblicamente proponendo di tagliare il limite collettivo tra 1,5 a 2 mln.bbl/g, e invitando la Russia a Vienna nel tentativo di convincere il primo produttore al mondo ad un taglio delle forniture ai mercati, iniziative rimaste entrambe sulla carta.

La versione liberistica del cartello, che lascia agire domanda e offerta per trovare un prezzo d’equilibrio – nella sostanza un non-cartello – è in realtà il risultato dell’eterno conflitto Arabia Saudita-Iran, e richiama alla memoria il 1998, quando i prezzi crollarono sotto i 10 $, per la non volontà di Riad di lasciare spazio sul mercato all’aumento dell’Iraq che allora tornava sul mercato per fini umanitari.

Le vittime principali di questa decisione sono tuttavia altri 2 soggetti geopolitici contrapposti: USA e Russia. Responsabili delle maggiori produzioni al di fuori del cartello, entrambi i Paesi vedono in questo calo delle quotazioni un potenziale rischio per i propri investimenti petroliferi, con la differenza che se per Washington l’economia del petrolio di scisto è novità relativamente recente, la Russia deve il 50% delle entrate fiscali e circa il 20% del PIL agli idrocarburi. In ogni caso ci vorranno anni prima che la macchina avviata della rivoluzione energetica USA si possa invertire.

Manovre politiche a parte, è l’eccesso di offerta di greggio la prima ragione della caduta dei prezzi del petrolio, che sta toccando livelli che non si registravano da 5 anni, quando crollarono spinti dalla crisi economico finanziaria mondiale. Ci sono voluti 10 anni per far sì che l’offerta si adeguasse all’impennata della domanda proveniente da Cina e Asia. Il rallentamento dei consumi di queste aree, ed il constante arretramento di quelli europei, ha portato all’emergere di una sovrapproduzione che per il primo trimestre del 2014 è dell’ordine di oltre 2 mln.bbl/g, valore difficilmente verificatosi in passato. E se la speculazione finanziaria, come sempre, tende ad accentuare le variazioni: per oltre 5 anni al rialzo, recentemente al ribasso, la decisione OPEC di lasciare invariata la produzione ha fatto il resto.

Un bel regalo di Natale per i consumatori di tutto il mondo.